Alle origini del conflitto palestinese: il White Paper del 1939
23 maggio 1939.
La Camera dei Comuni approva il White Paper elaborato dal governo britannico sulla nuova policy da applicare al territorio mandatario della Palestina.
Uno dei tanti passaggi in cui il destino di queste terre viene legato alle convenienze occidentali.
I nostri contenuti sono aperti a tutti, senza abbonamenti.
Se il post vi piacerà e come segno di apprezzamento vorrete lasciare un caffè pagato, potete farlo usando il link sotto.
Grazie in anticipo!
Avevamo parlato qui del rapporto Woodhead che nel 1938 rovescia le conclusioni della commissione Peel.
Questa, istituita dopo 6 mesi di sciopero da parte degli arabi di Palestina, nel 1936 ha proposto la partizione del territorio in due stati, uno arabo e uno ebraico.
La commissione Woodhead riesaminando il piano Peel lo ritiene inapplicabile sulla base che avrebbe comportato il trasferimento forzato di massa di parte della popolazione araba.
Similarmente altri due differenti piani esaminati si considerano infattibili perché lo stato arabo risultante sarebbe economicamente incapace di sostenersi e quindi dipendente da forti sussidi fiscali da parte del Regno Unito.
La politica britannica ribalta così quasi completamente la sua politica verso la Palestina tenuta fin dai tempi della dichiarazione Balfour: una linea favorevole al progetto sionista di creare uno stato giudaico in Palestina ove possano immigrare gli ebrei da tutto il mondo e in special modo dall’Europa.
Ma i tempi stanno mutando.
I politici britannici sanno che una guerra è alle porte in Europa e, come nel 1917 la dichiarazione Balfour servì per “arruolare” nell’impresa bellica le elite ebraiche sioniste, così a fine anni ‘30 si ritiene fondamentale avere a proprio favore quelle arabe, non solo in Palestina, ma anche in stati indispensabili in un impegno bellico come l’Egitto e l’Iraq.
Con queste premesse si apre il 7 febbraio 1939 la Conferenza di Londra (o Conferenza di St. James’s Palace) con cui il governo britannico cerca di ricercare l’approvazione delle comunità ebraica e araba di Palestina, assieme ai capi degli stati filoinglesi della regione (Egitto, Transgiordania, Iraq, Yemen e Arabia Saudita), sulla sistemazione politica del territorio al termine del suo mandato.
Come probabilmente ampiamente previsto da Neville Chamberlain e il suo governo le posizioni delle due comunità sono inconciliabili: la parte araba vuole che sia impedita qualsiasi nuova immigrazione ebraica in Palestina e la futura indipendenza come stato unitario, quella ebraica ovviamente il contrario con la spartizione del territorio in due stati come indicato a suo tempo dalla Commissione Peel.
Questo stallo è dovuto anche alla composizione delle delegazioni.
Quella araba è legata ai clan famigliari palestinesi più ricchi e potenti fin dai tempi dell’Impero Ottomano, in particolare la famiglia Husayni il cui membro allora più famoso, Amin al-Husseini Gran Muftì di Gerusalemme, è però dovuto fuggire in Libano perché ricercato dagli inglesi per il suo coinvolgimento nella rivolta araba del 1936-39.
Apriamo una parentesi su questa figura estremamente ambigua.
La sua elezione a Gran Muftì di Gerusalemme è avvenuta nel 1921 mediante brogli organizzati proprio dal governo inglese, proprio per avere la sua potente famiglia allineata ai propri interessi, salvo trovarselo alla testa di quasi ogni rivolta araba, spinto da una insaziabile ambizione che lo porterà fino a stabilirsi nella Germania nazista durante la WWII.
Sono invece ancora escluse le associazioni palestinesi, legate alla borghesia araba cittadina e ai piccoli proprietari terrieri, che hanno una stance molto più moderata.
Anche la delegazione ebraica ha un identico problema essendo dominata dalla fazione sionista dove primeggia la figura di David Ben-Gurion, che ritiene che lo Yeshuv (la comunità dei coloni ebraici di Palestina) sia in grado militarmente di difendersi da solo e anzi vorrebbe che l’immigrazione ebraica dall’estero sia composta soprattutto da giovani in grado di combattere.
Dopo quasi 6 settimane di colloqui infruttuosi il governo britannico decide di riservarsi unilateralmente la decisione finale che viene appunto riassunta nel White Paper a cui abbiamo accennato all’inizio.
Il documento stabilisce che entro dieci anni alla Palestina sarà concessa l’indipendenza come stato unitario, governato congiuntamente da arabi ed ebrei, in cui gli interessi di entrambe le comunità siano salvaguardati.
Allo stesso tempo è fortemente contingentata l’immigrazione ebraica per i prossimi 5 anni a sole 75.000 unità complessive mentre la compravendita di terre è limitata a solo un 5% del territorio.
La risposta delle due comunità è prevedibile.
Una volta finalmente eliminata l’influenza di Amin al-Husseini, gli arabi palestinesi approvano il White Paper nel 1940.
I coloni sionisti ebraici iniziano immediatamente invece un’attività di lotta che va da uno sciopero generale, all’attacco a proprietà governative inglesi fino a bombe e uccisioni di arabi da parte del gruppo di estrema destra dell’Irgun.
Uno dei suoi membri, Avraham Stern fonda nel 1940 il gruppo terroristico chiamato Leḥi o Banda Stern e prova a organizzare con l’aiuto del governo polacco una milizia armata di 40.000 ebrei da far immigrare illegalmente in Palestina, ma lo scoppio della WWII fa collassare il progetto.
Stern sarà poi ucciso nel 1942 a Tel Aviv durante il suo arresto, ma il Leḥi continuerà a compiere azioni terroristiche come l’assassinio di Lord Moyne nel 1944, gli attentati all’Hotel King David a Gerusalemme, sede dell’amministrazione britannica, e all’ambasciata inglese a Roma nel 1946 e l’uccisione del mediatore delle Nazioni Unite, il conte svedese Folke Bernadotte, nel 1948 quando già era stato formalmente integrato nelle forze di difesa israeliane (IDF).
Nonostante l’azione del Leḥi durante il conflitto mondiale la situazione si mantiene complessivamente tranquilla in Palestina, secondo le parole di Ben-Gurion: «Combatteremo il White Paper come se non esistesse la guerra, ma combatteremo la guerra come se non esistesse il White Paper.»